LA LETTERATURA

 

     Il territorio del Carso è ricco di forme non solo nella sua morfologia o nella sua vegetazione, ma anche nella sua cultura.

     Posto alle spalle di Trieste, quindi  all'interno di una regione mitteleuropea intensamente sviluppata nell'800 dalla dinastia asburgica, fu centro di incontro e di scambio in cui fiorirono, intorno a quella italiana, diverse culture, lingue, letterature: quella slovena degli abitanti secolari del Carso e quella tedesca, anch'essa "di casa" a Trieste.

 

 

La letteratura italiana La letteratura tedesca La letteratura slovena

 


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LA LETTERATURA ITALIANA

      

      Tra i tanti grandi poeti e narratori triestini, non sono molti quelli che hanno dedicato particolare attenzione al Carso. La letteratura triestina, fiorita tra '800 e '900, nel periodo del grande sviluppo della città mercantile - quella di Svevo e di Saba, per intenderci - riflette piuttosto la vita borghese delle piazze e dei caffè, dove si svolgono i suoi traffici commerciali.

     La Trieste degli scrittori è la città del mare, del porto, del cuore antico della zità vecia, caso mai. Se Saba sale sul Carso è per guardare dall'alto di Contovello verso il mare, riflettendo su sè stesso. Giani Stuparich, che pur racconta delle escursioni in Carso in Trieste nei miei ricordi, non nomina mai i suoi abitanti principali, gli sloveni.

     Gli scrittori qui proposti non sono perciò stati scelti tra i più noti, ma tra quelli che hanno guardato al Carso con un interesse più attento, cogliendone le specificità e rappresentando il rapporto difficile, spesso fatto di contrasti, che lega l'altipiano, contadino e sloveno, con la città.

 

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Scipio Slataper Fulvio Tomizza

Giorgio Depangher

 


 

 

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SCIPIO SLATAPER 

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       Scipio Slataper nasce a Trieste nel 1888, dove compie gli studi liceali.    Nel 1908 si trasferisce a Firenze per accedere con una borsa di studio all'Istituto di Studi Superiori ed entra in contatto con i giovani letterati della Voce.     Nel 1912, sulle pagine dei Quaderni della Voce, esce il suo unico romanzo, Il mio Carso, scritto nel paesino carsico di Ocisla.        Dopo viaggi a Vienna, a Praga, a Dresda, a Berlino, ottiene un posto di lettore di italiano al Kolonial Institut di Amburgo, in Germania, dove resta fino all'estate del 1914.

       Di fronte allo scoppio del primo conflitto mondiale, Slataper, cittadino dell'Impero Austro Ungarico, si batte per l'entrata in guerra dell'Italia, e coerente con il suo interventismo si arruola tra i primi nell'esercito italiano, accanto ad altri irredentisti triestini, come Giani e Carlo Stuparich. Parte per il fronte il 2 giugno 1915; in dicembre muore, offertosi volontario per un'azione sul monte Podgora.

       Oltre a Il mio Carso, restano della breve ma intensa attività intellettuale di Slataper, gli articoli pubblicati su La Voce nel 1909, raccolti con il titolo di Lettere triestine: in esse Slataper presenta alla cultura italiana la condizione di Trieste, che egli propone con una funzione di coagulo delle tre civiltà italiana, tedesca e slava, che vi convivono; afferma la necessità di un rapporto di rispettosa armonia tra gli italiani e gli slavi del territorio; discute la particolare situazione di Trieste, di cultura italiana, ma legata all'economia asburgica.

       I suoi scritti politici degli anni successivi, però, sposano sempre più le tesi nazionaliste e imperialiste: nei Confini orientali, del 1915, l'atteggiamento nei confronti dei popoli slavi è decisamente mutato in senso nazionalistico.

 


 

IL MIO CARSO

 

     Il mio Carso è un breve romanzo autobiografico, "un'autobiografia lirica", come Slataper stesso la definisce, cioè una sorta di diario-romanzo strutturato liricamente.

     L'autore vi ripercorre le tappe della sua formazione e traccia un profilo socioculturale della sua terra, soffermandosi sui problemi legati a Trieste e all'irredentismo, nei quali si sente direttamente coinvolto.

     Nel racconto si sviluppa il contrasto tra valori antitetici: carso e città, barbarie e cultura, libertà e società.

     Il protagonista, che dall'aspro ma "sano" altipiano giunge alla "malata" Trieste, simbolo della falsità borghese, troverà anche qui compagni di lotta contro l'ipocrisia delle convenzioni nelle classi emarginate, che possiedono una fortissima carica di energia interiore e di moralità.

       Questa tematica è organizzata in tre parti, che riprendono frammenti già pubblicati, lettere, parti di diario : sono pagine discontinue, unite da un accurato montaggio, ma che lasciano trasparire , come afferma Romano Luperini, "un'irrisolta tensione tra violenza espressionistica del frammento e volontà d'ordine e d'organicità ideologica" .    Anche la lingua è composita: forme dialettali triestine si affiancano a termini colti e aulici; prevalgono la paratassi, gli usi sintattici irregolari, intensamente espressivi, lo stile nominale, l'uso di metafore, l' aggettivazione fortemente connotata. Il linguaggio mira all'effetto emotivo piuttosto che ad una comunicazione tesa alla precisione.

       Le pagine che seguono costituiscono l'incipit - l'inizio - e l'explicit - la fine - del romanzo.

      


Il mio Carso - l'incipit

 

        Nell'incipit è presentato il tema centrale dell'opera: il contrasto tra la triestinità "barbara" del narratore e la raffinata e colta civiltà fiorentina dei letterati della Voce (scaltri e sagaci) cui egli si rivolge. La forza espressionista della forma esprime la tensione del narratore, che tenta di definire una sua identità composita, mista di tutte le componenti che confluiscono nella cultura triestina; tuttavia questa tensione sembra risolversi in una rinuncia: sono un povero italiano che cerca di imbarbarire..., è meglio ch'io confessi d'esservi fratello.   Il problema dell'identità di Trieste e dei suoi rapporti con l'Italia non viene dunque risolto : il narratore ha dichiarato la sua appartenenza ad una medesima cultura italiana, ma nel contempo ha evidenziato la sua diversità.

 

 

       Vorrei dirvi: Sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.

       Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri.

D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

       Vorrei dirvi: sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; ma presto devo tornare in patria perchè qui sto male.

       Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d'imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. E' meglio c'hio confessi d'esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra cultura e ai vostri ragionamenti. Io ho forse paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v'ascolto disinteressato e contento, e non m'accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura.

       E allora divento rosso e zitto, nell'angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà, ai veri amici miei che m'amano e mi riconoscono in una stretta di mano, in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni.

       Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti l'interminabile campo con lo spaccaterra tirato da quattro cavalloni pezzati, o curvi nel grembialone di cuoio davanti alle caldaie del vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala a Trieste all'epoca del portofranco; alla grande casa verdognola dove sono nato, dove vive, indurita dal dolore, la nostra nonna.

 


 

Il mio Carso - l' explicit

       Le pagine finali de Il mio Carso ripropongono il tema del contrasto tra la "barbarie" dell'altipiano e la raffinatezza della città: alla durezza e all'aridità del carso, alla sua selvatichezza, però, sono associati il senso della salute, della freschezza, della naturalità; i contadini sloveni, che portano la linfa del loro lavoro alla città, sono apprezzati come parte di questo mondo ( L'acqua delle tue grotte io amo[...] Amo queste donne carsoline... : il verbo lega nel chiasmo natura e uomini) .

       Gli aggettivi, i verbi che definiscono il Carso sono tutti connotati positivamente (sano, quieta, riposa, fresca, salute, amo...);   Trieste è invece definita da termini che evocano sofferenza (tormento, combattute, senza pace né gloria, soffrendo, forte e dolorosa...).

       Il mio Carso si conclude tuttavia con un'esaltazione orgogliosa della funzione centrale di Trieste come grande porto internazionale: nel lavoro, nell'attività dei traffici commerciali, nella volontà di amare e lavorare Slataper indica la possibilità dell'intesa con i fratelli italiani.

 

 

 

     Carso, che sei duro e buono ! Non hai riposo, e stai nudo al ghiaccio e all'agosto, mio carso, rotto e affannoso verso una linea di montagne per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo.

     Tutta l'acqua s'inabissa nelle tue spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla roccia bianca, gli occhi vacillano nell'inferno d'agosto. Non c'è tregua.

     Il mio carso è duro e buono. Ogni suo filo d'erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l'arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso.

     Egli è senza polpa. Ma ogni autunno un'altra foglia bruna si disvegeta nei suoi incassi, e la sua poca terra rossastra sa ancora di pietra e di ferro. Egli è nuovo ed eterno. E ogni tanto s'apre in lui una quieta dolina ed egli riposa infantilmente fra i peschi rossi e le pannocchie canneggianti.

     Disteso sul tuo grembo io sento lontanar nel profondo l'acqua raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e fresca, che porta la tua giovane salute al mare e alla città.

L'acqua delle tue grotte io amo che s'incanala benefica per le strade dritte. Amo queste donne carsoline che stringendo fra i denti, contro la bora, la cocca del fazzolettone, scendono a gruppi in città, con in testa il grande vaso nichelato pieno di latte caldo. E la striscia bianca dell'alba, e il bruciar doloroso dell'aurora fra la caligine della città.

     Qui è ordine e lavoro. In Puntofranco alle sei di mattina l'infreddito pilota di turno, gli occhi opachi dalla veglia, saluta il custode delle chiavi che apre il magazzino attrezzi. I grandi bovi bruni e neri trainano lentamente vagoni vuoti vicino ai piroscafi arrivati iersera; e quando i vagoni sono al loro posto, alle sei e dieci i facchini si sparpagliano per gli hangars. Hanno in tasca la pipa e un pezzo di pane. Il capo d'una ganga monta su un terrazzo di carico, intorno a lui s'accalcano più di duecento uomini con i libretti di lavoro levati in alto, e gridano d'essere ingaggiati. Il capo ganga strappa, scegliendo rapidamente, quanti biglietti gli occorrono, poi va via seguito dagli ingaggiati. Gli altri stanno zitti, e si risparpagliano. Pochi minuti prima delle sei e mezzo il meccanico con la blusa turchina sale sulla scaletta della gru, e apre la pressione dell'acqua; e infine, ultimi, arrivano i carri, i lunghi scaloni sobbalzanti e fracassanti. Il sole trabocca aranciato sul rettifilo grigio dei magazzini. Il sole è chiaro nel mare e nella città. Sulle rive Trieste si sveglia piena di moto e colori.

     E levan l'ancora i grossi piroscafi nostri verso Salonicco e Bombay. E domani le locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l'Elba dentro la Germanica.

     E anche noi obbediremo alla nostra legge. Viaggeremo incerti e nostagici, spinti da desiderosi ricordi che non troveremo nostri in nessun posto.

Di dove venimmo? Lontana è la patria e il nido disfatto. Ma commossi d'amore torneremo alla patria nostra Trieste, e di qui cominceremo.

     Noi vogliamo bene a Trieste per l'anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere. E se da queste piante d'Africa e Asia che le sue merci seminano fra i magazzini, se dalla sua Borsa dove il telegrafo di Turchia e Portorico batte calmo la nuova base di ricchezza, se dal suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e rotta s'afferma nel mondo una nuova volontà, Trieste è benedetta d'averci fatto vivere senza pace nè gloria. Noi ti vogliamo bene e ti benediciamo, perchè siamo contenti di magari morire nel tuo fuoco.

     Noi andremo nel mondo soffrendo con te. Perchè noi amiamo la vita nuova che ci aspetta. Essa è forte e dolorosa. Dobbiamo patire e tacere. Dobbiamo essere nella solitudine in città straniera, quando s'invidia il carrettiere bestemmiante nella lingua compresa da tutti attorno, e andando sconsolati di sera fra visi sconosciuti che non si sognano della nostra esistenza, s'alza lo sguardo oltre le case impenetrabili, tremando di pianto e di gloria.

     Noi dobbiamo spasimare sotto la nostra piccola possibilità umana, incapaci di chetare il singhiozzo d'una sorella e di rimettere in via il compagno che s'è buttato in disparte e chiede: "Perchè?"

     Ah, fratelli come sarebbe bello poter esser sicuri e superbi, e godere della propria intelligenza, saccheggiare i grandi campi rigogliosi con la giovane forza, e sapere e comandare e possedere! Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo d'esser giusti con noi come noi cerchiamo di essere giusti con voi. Perchè noi vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete. Noi vogliamo amare e lavorare.

 

 

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IRREDENTISMO

     L'irredentismo fu l'atteggiamento, ampiamente diffuso nella popolazione triestina tra la fine dell'800 e il 1918, di amore per l'Italia e di rivendicazione dell'appartenenza politica di Trieste alla terra patria contro il dominio asburgico.    Figura simbolica dell'irredentismo è considerata quella del triestino Guglielmo Oberdan, impiccato nel 1882 perché accusato di aver attentato alla vita dell'imperatore Francesco Giuseppe.

 

 

 

 

 

 

 


 

 

ESPRESSIONISMO

     L'espressionismo è uno stile tipico degli scrittori de La Voce, caratterizzato da contaminazione linguistica, cioè compresenza di elementi di varia provenienza (dialetto, termini colti, neologismi), e da una tensione che forza la normalità del lessico e delle strutture sintattiche, per raggiungere una maggior forza espressiva.    I termini usati, o le metafore, sono scelti per la loro capacità evocativa, sovraccaricati di significato, anche in modo deformante.

     Esempi di usi espressionistici: all'esordio de Il mio Carso, un cane spelacchiato e rauco, oche infanghite; nell'ultima pagina, il sole strabocca aranciato sul rettifilo grigio dei magazzini.  

     L'espressionismo è anche negli stessi anni, tra il 1910 e il 1920, un importante movimento d'avanguardia tedesco, che si esprime sia in ambito pittorico (Schiele, Kokoschka) che letterario (Benn, Trakl).

 

 


 

 

 

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La vita Le opere Il romanzo L'amicizia Ricordo di Fulvio

 

 

La vita

     Fulvio Tomizza nasce nel gennaio del 1935 a Giurizzani (frazione di Materada), paesino dell'Istria nord occidentale posto tra la fascia costiera e l'interno, a pochi chilometri dal mare di Umago e dalla città di Buie.  Questa terra istriana era allora abitata da popolazione mista , di lingua istroveneta e slava.

   Tomizza stesso, di padre italiano e di madre croata, parlava indifferentemente l'italiano ed il croato. Queste radici ibride hanno impregnato la sua cultura, portandolo in anni di forti scontri nazionalistici ad una visione del mondo aperta alla tolleranza, alla comprensione e alla convivenza pacifica, su cui è fondata tutta la sua opera letteraria.

    Grazie alla posizione economica agiata della sua famiglia  (piccoli commercianti), Tomizza ebbe la possibilità di studiare e a nove anni fu iscritto al seminario di Capodistria; frequentò poi il collegio di Gorizia e infine tornò nel capoluogo istriano al Liceo Carlo Combi.  Furono anni di gravi sconvolgimenti politici e sociali: nel '45 si era instaurato in Istria il regime iugoslavo e il sistema comunista portò ad un capovolgimento di condizione per la famiglia Tomizza: i loro beni furono confiscati e il padre arrestato.

     Il giovane Fulvio visse quindi direttamente le conseguenze degli odi nazionalistici, ma non si allontanò dai suoi ideali di dialogo e di integrazione sovranazionale. Dopo la morte del padre nel '53 ed un periodo a Radio Capodistria come redattore dei programmi italiani si trasferì con una borsa di studio nel '55 a Belgrado dove frequentò un corso di regia all'Accademia d'Arte; alla fine del corso partecipò come aiuto regista al film Attimi decisivi girato a Lubiana.

      Dopo il memorandum di Londra  del '54 , tornato a Materada visse la terribile esperienza dell'esodo; raggiunta nel '56 la famiglia a Trieste , cominciò a scrivere, rappresentando nel suo primo romanzo Materada (1960) il dramma di chi era stato costretto a scegliere se restare in un paese tanto cambiato, o se partire lasciando la terra, i beni e le tradizioni.  Diventato redattore del giornale radio RAI a Trieste, Tomizza continuò a scrivere anche per il teatro e su tematiche storiche, cogliendo numerosi successi.

      Nel 1984 gli è stata conferita la laurea honoris causa in Lettere dall'Università degli Studi di Trieste "per l'elevato livello artistico della sua intensa attività narrativa, nella quale si è reso acuto e originale interprete di una cultura basata sui valori della pacifica convivenza fra le genti".

      Logorato da una malattia al fegato Fulvio Tomizza si è spento il 21 maggio 1999 ed ora è sepolto nella sua Materada.

 

 

 

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Popolazione mista

"La mia Istria, Materada, non è tutta l'Istria: è un'Istria emarginata, mistilingue, formatasi nel giro di quattro secoli. Si è creata una razza ibrida, [...] che non aveva prevenzioni verso nessuno, che parlava indifferentemente un dialetto veneto pieno di termini croati ed un dialetto croato pieno di termini veneti. Neppure al giorno d'oggi, per esempio, è entrato nella parlata locale il sostantivo suma che significa bosco, e che invece il materadese chiama curiosamente bosak; così nel dialetto italiano di queste parti non si dice capra o, alla veneta, cavra, ma koza, che è termine croato."

                   F.Tomizza , Destino di frontiera, p.36

 

 

 

 

 

MEMORANDUM DI LONDRA

    Con il Memorandum d'Intesa di Londra ( 5.10.1954 ) tra Italia, Jugoslavia, Stati Uniti e Gran Bretagna, si definì l'assetto del Territorio Libero di Trieste : la zona A, con Trieste, venne affidata all'amministrazione dell'Italia; la zona B, con gran parte dell'Istria, all'amministrazione della Jugoslavia.  Ciò convinse un'ulteriore parte di popolazione ad abbandonare l'Istria.

 

 

 

 

 


 

 

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      L'opera narrativa di Tomizza parte dall'esperienza dell'esodo, raccontata nella Trilogia istriana , che raccoglie il primo romanzo Materada ('60) assieme a La ragazza di Petrovia ('63) e a Il bosco di acacie ('66) .  In questi tre volumi Tomizza pone l'accento sul dramma umano dell'esodo nei suoi diversi momenti: nel primo la difficile decisione di abbandonare l'Istria; nel secondo la vita del campo profughi; nel terzo la sistemazione di una famiglia di esuli nella nuova terra della Bassa Friulana. 

      Tomizza si dedicò anche al teatro: la tragedia carsica Vera Verk fu messa in scena dallo Stabile del Friuli Venezia Giulia nel 1962; anni dopo ridusse l'opera di Giulio Cesare Croce Storia di Bertoldo; del 1976 è L'idealista, drammatizzazione del romanzo dello sloveno Ivan Cankar, con cui fu inaugurata la stagione '83-'84 del Volkstheater di Vienna.

      Con Materada Tomizza aveva riscosso un certo successo; con il romanzo La quinta stagione ('65) ottenne il premio Selezione Campiello e nel '69 il premio Viareggio con L'albero dei sogni, dove continua ad evidenziarsi la sua condizione di uomo e di scrittore "di frontiera". L'interesse per l'autobiografia e per la psicanalisi si fa sentire anche ne La città di Miriam ('72).

      L'analisi del significato "dell'istrianità e della triestinità" continua nei volumi La torre capovolta ('71) e Dove tornare ('74).

          Ma l'interesse di Tomizza si rivolge sempre più alla storia, anzi alla microstoria. Nel romanzo La miglior vita ('77) vengono raccontate le vicende di un piccolo paese istriano, narrate dal sagrestano Martin Crusich che nella sua lunga vita vede susseguirsi parroci italiani e croati, in un periodo che va dalla dominazione austriaca, alla prima guerra mondiale, al fascismo, alla lotta partigiana, al passaggio alla Jugoslavia. Questo grande affresco storico, costruito sulla base dei registri parrocchiali e narrato dal sagrestano come portavoce di un'intera comunità, assume un tono epico: considerato il capolavoro di Tomizza, gli è valso il premio Strega e gli ha dato notorietà a livello europeo.

      Negli anni Ottanta il ritmo della sua attività letteraria si intensifica e pubblica regolarmente un libro ogni due anni: nell'80 pubblica il romanzo L'amicizia, nell'81 La finzione di Maria , nell'84 Il male viene dal Nord sulla figura storica del vescovo Pierpaolo Vergerio.

      Nell'86 esce Gli sposi di via Rossetti, ricostruzione di un oscuro e drammatico fatto di sangue mai chiarito ufficialmente, avvenuto all'interno della complessa comunità slovena nella Trieste del 1943; nell'87 Quando Dio uscì di Chiesa, nell'89 L'ereditiera veneziana, nel '90 Fughe incrociate , nel '94 L'abate Roys e il fatto innominabile.

      In questa serie di libri emerge chiara la nuova passione di Tomizza per la storicità: partito dalla lezione degli storici delle Annales e dalla microstoria, si dedica alle ricerche d'archivio, a raccogliere testimonianze orali ed epistolari, per costruire un nuovo genere di opere, non romanzi storici, non storie romanzate, ma "opere narrative storicamente fondate e documentate".

      Un significativo esempio di questa nuova tendenza è rappresentato da Il male viene dal nord, in cui Tomizza ricostruisce la complessa biografia di Paolo Vergerio, il vescovo riformatore di Capodistria vissuto nel 1500, scomunicato dai cattolici, divenuto protestante ma mal visto anche dai luterani : in questa figura, rappresentata con grande rigore storico, Tomizza tratteggia anche il simbolo di un "uomo di frontiera", senza appartenenze, in cui riconosce per certi aspetti anche la propria vicenda biografica, di uomo sentito slavo dagli italiani e italiano dagli slavi.

 

      Il tema della frontiera viene trattato anche in Destino di frontiera ('92), in cui Tomizza, intervistato da Riccardo Ferrante, compie un bilancio sulla sua carriera letteraria e delle riflessioni sulle vicende storiche e umane delle terre di confine e sulle tensioni della Jugoslavia. Nello stesso anno pubblica I rapporti colpevoli che vede il ritorno dell'opera psicoanalitica e psicologica rapportata a se stesso. Con la pubblicazione di Dal luogo del sequestro Tomizza si allontana dal suo classico stile letterario improvvisandosi scrittore giallo.

      Ma il suo più grande successo è rappresentato dal romanzo Franziska (1997), che racconta l'amore impossibile tra una donna del Carso sloveno ed un ufficiale italiano. Tomizza ha pubblicato il suo ultimo libro nel marzo 1999, Nel chiaro della notte. Postumo, a un anno dalla sua morte, è uscito nel maggio 2000 il romanzo La visitatrice, ambientato tra Trieste e Lubiana nei difficili anni di metà secolo. Nel maggio 2001 è stato pubblicato l'ultimo romanzo Il sogno dalmata, un percorso alla ricerca delle origini familiari in Dalmazia.

 

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                                        L'amicizia                       tomlam1.jpg (99712 byte)        

  

   Nel romanzo L'amicizia (1980) Tomizza rappresenta la distanza tra Trieste e il Carso attraverso la storia del contrastato rapporto di amicizia tra Marco e Alessandro, un profugo istriano di origine slava, contadino inurbato, e un triestino, borghese, agiato.

     E' un'amicizia mancata, in cui i due mondi, pur alla ricerca di contatti ( i due giovani hanno un interesse comune per la letteratura, amicizie, amori vissuti insieme), alla fine non riusciranno a fondersi. Sarà il "contadino" Marco, diventato scrittore di fama, a stabilirsi in Carso, integrandosi nella vita della comunità slovena, e non il "cittadino" Alessandro, pur fidanzato con una giovane e ricca esponente della minoranza carsolina. Città e campagna, italianità e slovenità , sembra dirci Tomizza , sono ancora mondi troppo distanti.

 

      Tra le pagine del romanzo, ne proponiamo due che rappresentano un tipico luogo di "integrazione" tra i triestini cittadini e gli sloveni del carso: l' osmizza .

 

 

     Il frasco indicante la mescita privata pendeva dal pilastro di un portone e aveva già richiamato alcune automobili.

     Era una vera osmizza coi tavoli sotto il pergolato e la cantina spalancata agli avventori di maggiore familiarità o pretesa, che volevano gustare il vino dalle botti. Occupavano le panche un gruppo di operai in tuta blu, probabilmente impegnati in un lavoro di scavo nelle vicinanze, due intere famiglie si erano date convegno dopo la passeggiata nei boschi, dove le donne e i bambini avevano raccolto mazzetti di viole e di primule.

     Serviva una donna alta e scarna, dai grandi occhi chiari e i capelli di stoppa; doveva essere alla sua prima esperienza poiché s'intratteneva con ognuno come fosse un invitato e portava in dono dalla cucina fette di pandolce, uova sode, piattini di pancetta per impedire che il vino desse alla testa. Ricordava le donne macilente, dai ventri stragonfi e bianchissime di pelle, raffigurate nei rozzi affreschi delle nostre chiesette. Neppure il marito, assegnato alla cantina, riusciva a celare timidezza e soddisfazione; nella larga faccia scottata dal primo sole di marzo ridevano due sfuggenti occhi di mongolo, le labbra spesse lasciavano scoperto un dente d'oro.

     "Che strana razza questi carsolini" non mi trattenni dal commentare. " Ogni nomade o pellegrino transitato per di qua pare avervi lasciato un granello della propria semenza."

     "Da principio sembrano somigliarsi tutti. Poi ti accorgi quanto ognuno è diverso, addirittura opposto. Da qualche parte ho letto che molti sarebbero di origine bosniaca."

     "Questo è un unno, dài."

     "Già. Si chiama Milan. E' una pasta d'uomo, produce da solo cinquanta ettolitri di vino e non gli pare giusto farsi pagare il bicchiere. Ma sua moglie forse lo batte. Vuoterebbe la cucina per i clienti. Gli ho spiegato come chiedere un mutuo agevolato alla Provincia e ho dovuto portarmi a casa una gallina."

     L'amicizia , Rizzoli 1980, p.144-5

  

*  *  *

 

     Dopo un'ampia curva che fungeva da belvedere sospeso sulla città e quasi eguagliava in altezza la "napoleonica" scalpellata nel masso, giungemmo tra il cocuzzolo di case che attraeva lo sguardo di quanti passeggiavano lungo le rive. Parcheggiasti in un cortiletto in pendio, subito fuori dalla strada asfaltata.       "Qui c'è un buon bicchiere."

     Percorremmo un vicolo lastricato tra due file di case basse e intonacate scivolando sui ciuffi d'erba, piegammo ancora in su verso la chiesa. Sulla nuova verzura dell'anno prevaleva l'odore del fieno stipato nei piani alti delle stalle. Sul cantone di una casa nuova avvizziva un mazzolino di rami d'edera. L'osteriola privata, che da noi si chiamava spacio e qui prende il nome dalla misura dell'ottavo (osmizza) con cui il vino viene servito era composta da un paio di tavoli allineati entro un recinto di assi verniciate di verde.

     "Siora Julka", chiamasti.

     Una vecchia in un vestito a fiori stinti e il fazzoletto più chiaro annodato sotto il mento apparve sulla soglia reggendo una mezzetta e due bicchieri

 

     L'amicizia , Rizzoli 1980, p.132

 

 

 


 

 

Ricordo di Fulvio           tomcane.JPG (71888 byte)

 

 

 

     Fulvio era un grande amico di mio papà: io l'ho conosciuto nel dicembre del 92, quando, bloccati a casa dalla varicella di mia sorella, Fulvio è venuto a trovare il babbo.   

     Mi ricordo ancora il suo odore di sigaro e la penna con cui mi ha dedicato Il male viene dal nord : ero ancora piccola ma gli promisi che un giorno avrei letto quel libro che mi aveva autografato, ed un giorno lo farò. Devo essere sincera, dei libri di Fulvio avevo letto fino a quel momento solamente Anche le pulci hanno la tosse, un libriccino di poche pagine per bambini che mi aveva regalato per Natale.

     Mi piaceva tantissimo d'estate andare con il babbo a trovarlo nella sua casa di Momichia, dove trovavo nell'afa estiva sempre quel bicchiere ghiacciato di Fanta e le nocciole del suo albero.

     La prima volta che ho messo piede nel suo regno di scrittore sono rimasta impressionata dall'odore di sigaro e di carta della stalla da lui adibita a studio e da quanta paura mi faceva quel posto buio e cupo in cui lui stava per ore con una penna in mano a scrivere.

     Le sue mani sono sempre state molto eleganti. Anche quando quel pomeriggio mi ha scritto la dedica sul libro mi ha colpito il suo modo di tenere in mano quella penna stilografica blu: la teneva con estrema forza ma dal pennino usciva una scrittura dolce e aristocratica. L'ho ammirato sempre moltissimo, tanto che sono sempre andata ad ogni presentazione dei suoi libri, dal '93.

     Mi piaceva quando mi diceva quanto fosse bello il mio nome, come mi sorrideva. Pochi lo hanno visto sorridere e io mi sento molto fortunata ad essere una di quelle persone che hanno visto tra i segni del suo viso stanco e travagliato un sorriso di profonda umanità e gentilezza.

     Forse per affetto o per nostalgia papà non ha ancora tolto i sigari che teneva per lui nel cruscotto della macchina. I toscani ormai sono lì da più di cinque anni ma nessuno osa toccarli, sono di Fulvio.

     Il mio rapporto con lui non è stato molto frequente, ma credo sia stata la prima persona al di fuori della famiglia a farmi sentire importante e in fin dei conti adulta.

     Quando è morto mi sono resa conto che non era importante solo per me: tutta quella gente presente in quella cattedrale cupa, a S.Giusto, era triste; forse, tranne i familiari, tutti piangevano un importante scrittore. Io piangevo Fulvio.

     Non l'ho mai visto come uno scrittore, ma vedere tutte quelle persone apprezzarlo per i suoi libri scritti in quel mondo buio di Momichia mi ha fatto riflettere, così ho cominciato ad interessarmi al suo mondo di letterato. Le prime volte che ho letto recensioni dei suoi libri sui quotidiani ho sentito i posti dell'Istria di cui narrava come

qualcosa di importante, posti che per la normalità della vita quotidiana avevo sempre considerato banali. Con i suoi libri Fulvio mi ha fatto apprezzare la bellezza e la forza della mia terra di origine, dei suoi contadini.

     Mi sento molto fortunata ad essere una persona che ha ricevuto amore da un uomo apparentemente freddo, riservato, a cui io ho voluto e voglio molto bene ancora. Ma so che di fronte a me ho tutti i libri che lui ci ha lasciato e che ho tante cose di lui ancora da scoprire e da amare. 

 

Martina Vocci

 

 

 


 

 

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GIORGIO DEPANGHER Depangh.jpg (14357 byte)

 

     Giorgio Depangher è stato una delle più rilevanti personalità del territorio di Duino Aurisina.  Nato a Capodistria nel 1941, si  trasferì a Trieste nel 1954 all'epoca del grande esodo dall'Istria.   Nonostante il doloroso distacco dalla sua terra,  riuscì  ad integrarsi in profondità nel comune di Duino Aurisina, dove  andò a risiedere, tanto da diventarne sindaco negli anni '80.

     La sua formazione culturale si sviluppò tra l'Istria e l'Italia: qui si laureò e divenne insegnante di materie letterarie nelle scuole medie.

     Si impegnò in attività politiche e sindacali, oltre che culturali. Fondò nell' 81 il Circolo Istria di cui fu presidente per sei anni, e assunse un ruolo importante nell'istituto Gramsci, per il quale organizzò varie attività culturali; tra altre pubblicazioni, curò anche gli atti di tre convegni sulle minoranze, rispettivamente negli anni '85, '86, '88.

     Tutta la sua attività converge su un obiettivo fondamentale: collaborare a creare, in questa regione così ricca di tensioni tra italiani e sloveni, una cultura della convivenza, che poggi sulla conoscenza reciproca e che si arricchisca dell'apporto di entrambe le tradizioni.

     Anche la sua produzione letteraria è improntata alla sua volontà di integrazione tra le due culture: poeta egli stesso, ha condotto un'attività di traduzione di numerosi testi di poeti sloveni tra cui Igo Gruden e France Preseren.

     Negli anni Ottanta sono uscite tre sue raccolte di poesie: Il ginepro e il vento (1983), I silenzi della città (1984) e Con l'altra parte di me (1987).

 

      Nelle liriche della prima si evidenzia come dato costante la profonda relazione che il poeta istituisce tra sè e il Carso, un ambiente dove tutti gli elementi naturali e paesaggistici assumono una funzione

simbolica, si riempiono di significati che esprimono la difficoltà dell'integrazione e una forte tensione sentimentale e morale.

     Nella seconda raccolta Depangher utilizza una lirica meno evocativa, per rappresentare intrecci più complessi di situazioni pubbliche e private raccontando poeticamente la difficoltà del suo inserimento in una società talvolta ostile, divisa da barriere che egli cerca di abbattere.

     Nell' ultima opera compie una profonda riflessione sulla storia sua e di tanti altri, affrontando la tematica della doppia identità, della sua integrazione nel territorio, e proponendo una cultura della convivenza sia dal punto di vista storico-biografica che sentimentale-esistenziale.

     In tutte queste liriche si evidenzia un forte desiderio di unificazione, ma spesso anche l'amarezza per "una storia che non cresce" .

      L'ultima  raccolta, Sbrindoli ( cioè Brandelli),  è uscita postuma nel 2002, ad un anno dalla sua prematura scomparsa: è un libretto di poesie in dialetto capodistriano , pagine di un diario dolce e malinconico che scavano nei segreti degli uomini e della vita.

"Xe stada cusì curta 'sta zornada..."

 

Il ginepro e il vento Comuni radici I silenzi nella città

 

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Il ginepro e il vento sommacco1.jpg (204359 byte)

 

Roccia che vince la terra

- verde ginepro-

alle stagioni solido e dritto

vivi

senza domande

senza riflessi irrisolti

a godere del bacio dell'acqua

dell'abbraccio del gelo sul Carso

della compagnia dolce e triste

del rosso sommacco.

Passi tra ombre e luce

senza patemi

vivendo ferite di uccelli

e di mani

senza negare le aspre bacche femminee

mature per giochi maturi.

 

Povero il vento

consuma una vita senza confini

a frugare anfratti nascosti

con guizzi nervosi

con logoranti e costanti percorsi

con esasperate rincorse

a riflettere su se stesso

a cercarsi

a ferirsi nella trasparenza delle ore invernali

fino a smarrirsi

nella disperazione di sguardi non raccolti

fra neve e gelo.

Vive il ginepro

fino a rinsecchire

a bruciare nella calura estiva,

rincorre il vento la vita

instancabile

arando doline

prati e pietre bianche.

Un giorno mi sono fermato.

 

 

     Il ginepro e il vento è la lirica che dà il nome alla prima raccolta poetica di Depangher (1983) e che ne presenta i temi principali.

     Il paesaggio carsico assume una funzione simbolica: il ginepro, nella sua vitalità tenace (verde...alle stagioni solido e diritto vivi) può personificare la difficoltà, ma anche la paziente positività della vita carsica.

     Al ginepro sembra contrapposto il vento ( povero ) a simboleggiare la pena di una logorante ricerca , fino alla disperazione , ma instancabile .

     In realtà le azioni del ginepro e del vento corrono parallele (vive il ginepro,... rincorre il vento la vita ), quasi eterne, in una comunanza di destini.

     E' in questo ambiente aspro, difficile, che il poeta ha colto dei significati che poteva sentire suoi, con questo carso si è sentito in sintonia, e vi ha messo radici ( un giorno mi sono fermato ).

     Il linguaggio poetico è scarno, asciutto, come la pietra carsica, ma denso di significati, sottolineati e posti in relazione dall'uso delle anafore ( senza...senza ). Anche i suoni sono aspri e rilevati dalle allitterazioni ( a frugare anfratti nascosti), nei versi brevi e irregolari, dove contribuiscono a significare la pena della vita.

 

 


 

Comuni radici roccsom2.jpg (155373 byte)

Dire di un Carso

uguale e fermo

non è del calcare

tracciato dall'acqua

tormentato dal freddo

del vento.

Questo Carso io amo,

nell'orgoglio discreto

e geloso di chi

fissa nel cielo e negli occhi

lo stesso sguardo asciutto

lavato come la terra

e l'erba nelle doline.

Sui volti segnati

di sole e di forza

leggo antiche radici

comuni con genti

di là dal mare, il rosso

della terra e del vino,

i ginepri

della riservatezza,

il ricorrente sommacco

della tradizione:

son forse quelli che abbiamo

negli occhi di sera

tra il verde dei nostri incontri.

 

 

 

     Comuni radici, che appartiene alla raccolta Con l'altra parte di me del 1987, mantiene elementi delle liriche precedenti (la valenza simbolica del paesaggio carsico, del calcare , dei ginepri, del sommacco, delle doline ) , ma propone un altro tema, quello delle antiche radici comuni con genti di là dal mare : Depangher, che ha lasciato l'Istria nella sua giovinezza, ritrova una comune riservatezza, una comune tradizione nella terra del carso.

 

 


 

 

I silenzi nella città    nebbcars.jpg (34207 byte)    

 

I silenzi nella città

di questa città

non sono quelli della notte

o delle morte stagioni.

Nel paese della bora, dal mare al Carso,

cortine di nebbia

ristagnano

identità si specchiano

mute

nella loro chiusa diversità.

Dell'assurdità del guardarsi

e del non vedersi,

del parlare

e del non sentirsi,

di quest'essere contemporanei

allo scoiattolo bruno

e mai alla rjava veverica,

al bianco calcare

e mai al bel apnenec,

al verde ginepro

e mai al zeleno brinje.

Ho nascosto

in una fenditura di pietra, lassù,

un desiderio tutto mio.

 

 

     Ne I silenzi della città (1984), Depangher pone il problema della mancata volontà di comunicare tra le due comunità, quella italiana e quella slovena, che abitano il territorio di Trieste.

     E' un silenzio anomalo, assurdo come è anomala la cortina di nebbia in un paese dominato dalla bora.

     Ci sono, lo sappiamo, delle ragioni storiche a spiegare questa assurdità del guardarsi e del non vedersi; al poeta non resta che esprimere un desiderio, nascosto in una fenditura di pietra.

 


 

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LA LETTERATURA TEDESCA

 

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 L'Italia, grazie al suo patrimonio artistico e al suo clima felice, fu una delle mete privilegiate nei viaggi degli intellettuali europei, da Goethe a Mann, a Joyce.

     Alcune delle personalità illustri che soggiornarono a Trieste ebbero modo di conoscere anche il Carso triestino, e rimasero affascinate dal suo paesaggio straordinario e dai suoi colori .

     Ancor oggi Trieste, propaggine meridionale della 'Mitteleuropa', attrae scrittori e letterati; ma la 'triestinità' non finisce ai confini della città: comprende il mare, il Carso, il Friuli, l'Istria, Fiume, come ha sottolineato lo scrittore Claudio Magris.

     Il poeta austriaco Rainer Maria Rilke è forse colui che più fortemente è rimasto colpito dalla bellezza di Duino e del suo castello a strapiombo sul mare, tanto da comporre qui la prima delle sue Elegie duinesi.

 

 

 

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Rainer Maria Rilke

 

 

    Rainer Maria Rilke nacque a Praga il 4.12.1875 e morì a Valmont, presso Montreux, nel 1926. Dopo l'oscuro periodo vissuto a Praga, rievocato più tardi nella novella Ewald Tragy, trascorse una vita piena di spostamenti.

     Stabilitosi a Monaco (1896), vi conobbe Lou Andreas-Salomè, di cui subì profondamente il fascino e a cui dedicò il Florenzer Tagebuch (Viaggio fiorentino, tradotto nel 1942), diario di un soggiorno del 1898 nella città toscana.

    Ebbe l'opportunità nel 1900 di conoscere Lev Tolstoj, e scrisse Das Stundenbuch (Il libro d'ore, 1899-1903).   Direttamente ispirato al periodo trascorso a Parigi è Das Buch der Bilder (Il libro delle immagini).    Allo stesso periodo risale il poemetto in prosa ritmica Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Cristoph Rilke (Il canto sulla vita e sulla morte dell' alfiere Cristoforo Rilke), apparso nel 1906, che ebbe una strepitosa fortuna.

     A partire dalle poesie nuove (1907-1908) Rilke inaugura la poetica del Ding -Gedicht (poesia-cosa), ossia il tentativo di pervenire, attraverso il ritmo e il suono della parola e la profonda attenzione al suo valore semantico, alla ricostruzione e alla piena conoscenza dell' oggetto reale, che troverà nei Quaderni di Malte Laurids Brigge testimonianza di una lacerante situazione esistenziale, la sua espressione più compiuta.

    

 


 

LE   ELEGIE DUINESI

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     Nell'aprile del 1910 fu invitato dalla principessa Maria della Torre Tasso nel suo castello di Duino.  In questo splendido luogo Rilke compose le prime elegie, poi terminate in un piccolo castello a Muzot, presso Sierre, nel Canton Vallese in Svizzera, pubblicate nel 1923 con il titolo Duineser Elegien (Elegie duinesi).

     Si racconta che fu la vista della suggestiva scogliera di Duino ad offrirgli il primo spunto. In una rigida mattina di gennaio 1912 il poeta camminava a stento lungo la scogliera mentre la bora soffiava impetuosa sconvolgendo le acque del mare. All'improvviso si dice avvertisse una misteriosa voce interiore che gli dettò i due versi iniziali di quella che sarebbe diventata la prima elegia:

                                                                                          

Ma chi se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere                                        

degli Angeli? E se anche un Angelo a un tratto

mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte

mi farebbe morire. Perché il bello non è

che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora,

lo ammiriamo anche tanto, perch'esso è calmo, sdegna

distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.

E così mi rattengo e il richiamo di oscuri singhiozzi

lo soffoco in gola. Ah, di chi mai

ci possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no,

e i sagaci animali lo notano che , di casa nel mondo interpretato,

non diamo affidamento. Ci resta, forse,

un albero, là sul pendio,

da rivedere un giorno;
ci resta la strada di ieri [...]

(traduzione E. e I. de Portu)

                                                         

                                                            TESTO  ORIGINALE 


 

Wer, wenn ich schrie, hörte mich denn aus der Engel

Ordnungen? Und gesetzt selbst , es nähme

einer mich plötzlich ans Herz: ich verginge von seinem

stärkeren Dasein. Denn das Schöne ist nichts

als des Schrecklichen Anfang , den wir noch gerade ertragen,

und wir bewundern es, weil es gelassen verschmäht,

uns zu zerstören. Ein jeder Engel ist schrecklich…

 

R.M.Rilke, 1. Elegie

 

 

 


 

 

    Così scriveva nel 191O Maria Thurn Taxis nel suo diario :

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... Mi dispiaceva moltissimo di non essere stata presente all'arrivo di Rilke, ma egli confessò che era stato contento di trascorrere da solo le prime ore, perché la bellezza di Duino era così sconvolgente che aveva bisogno di solitudine per potercisi abituare. Sarebbe rimasto sul balcone tutto quel luminoso pomeriggio di primavera, nel profumo delle infinite iris e nell'odore del mare, con lo sguardo perduto nell'azzurro del mare, tutto immerso nella contemplazione.

Furono giorni indimenticabili quelli vissuti allora.

Quanto più stavo con il poeta, che a Parigi avevo appena visto, tanto più mi sentivo attratta dal suo particolarissimo fascino. Quello che più mi commuoveva era la gioia per il nostro incontro, e la gratitudine, sebbene io non ne trovassi veramente una giustificazione. Noi, solo noi dovevamo essergli grati di tutto cuore, già solo per il fatto che esisteva. Rilke era di una modestia incredibile: ne ho vista di rado una simile . Questo valeva però solo per l'uomo che egli distingueva nettamente dal poeta. Il poeta non riconosceva altro giudice che se stesso; plauso e critica lo lasciavano completamente indifferente. Sapeva che in lui parlava una voce che egli doveva seguire, e ciò gli bastava. Accanto a questa orgogliosa fiducia in se stesso che non gli veniva mai meno, molto spesso io intuivo in lui il bambino. Un bambino incantevole, un po' derelitto in questo vasto mondo, più vicino alla terra e alle stelle che agli uomini, che sembrava temere istintivamente; un bambino alla mercé degli oscuri fantasmi della notte, ma anche di eccelse visioni, che percepiva anche gli angeli, che concedono "giubilo e gloria". [...]

 

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LA LETTERATURA SLOVENA

 

      Trieste è stata un centro importante di elaborazione culturale slovena, nei secoli passati, soprattutto nell'800, quando la politica dell'impero asburgico e la fioritura economica della città favorirono l'inurbamento di molti sloveni.

      Nel 1910 Trieste superava, in numero di abitanti sloveni, la stessa Lubiana, tanto che Ivan Tavcar la soprannominò "polmone della Slovenia": in questo contesto si sviluppò una letteratura slovena autoctona , ricca di scrittori e di poeti come Fran Levstik, Dragotin Kette, Ivan Cankar.

      Dalla seconda metà dell'800 ( l'età della "primavera dei popoli"), però, lo sviluppo dei nazionalismi portò ad incrinare l'equilibrio e la simbiosi tra le due culture. L'opera di oppressione e di violenta snazionalizzazione del fascismo, poi, rese più profonda la spaccatura e la mancanza di comunicazione tra gli italiani e gli sloveni di Trieste.

      Oggi, in un mutato clima politico e culturale, si possono leggere ed apprezzare anche in italiano le poesie di Srečko Kosovel, di Miroslav Kosuta, di Igo Gruden , o i romanzi di Alojs Rebula, tutti originari del carso triestino.

 

 

 


 

IGO GRUDEN

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      Igo Gruden è uno tra i maggiori esponenti della poesia slovena.

Nacque ad Aurisina ( Nabrežina ) nel 1893, periodo in cui il paese conobbe la notevole impennata economica grazie all'industria delle cave di pietra, favorita dalla ferrovia che collegava Trieste con Vienna.

     Di famiglia agiata, visse la sua infanzia in un ambiente completamente sloveno. Frequentò studiando giurisprudenza presso le università di Vienna e Praga, tappe obbligatorie per tutti i giovani benestanti sloveni, e collaborò con varie riviste di Zagabria. I suoi primi versi risalgono ai 14 anni e rivelano la preferenza per le forme classiche quali il sonetto e l'endecasillabo.

      L'esperienza della prima guerra mondiale, combattuta aspramente nella regione, segnò profondamente il poeta, che visse e testimoniò nelle sue opere il dramma dei compatrioti costretti a rifugiarsi all'interno dei territori dell'Impero Austro Ungarico, cui apparteneva allora Trieste.

      Soggetti delle sue liriche sono il paesaggio carsico, la vita quotidiana e le condizioni sociali della popolazione slovena del territorio. A questi temi, dopo la fine della guerra e il passaggio del territorio all'Italia, negli anni del regime fascista che operò un'intensa attività di snazionalizzazione degli sloveni, si aggiungono il senso di nostalgia per il tempo passato ed il suo sentimento nazionale ferito.

      Emerge da queste poesie una particolare attenzione e un senso di solidarietà per gli oppressi, per la povera gente: le figure più frequenti sono i contadini ed i pescatori dei villaggi sloveni della costa triestina, ritratti con realismo e simpatia ma anche con dolorosa partecipazione alla loro dura condizione (Barcola, Nelle cave di Aurisina). Importante fonte di ispirazione fu pure sua moglie Pepca, dedicataria di epistole epico-storiche note col nome di Canti della cameriera Pepca.

      Alla vigilia della seconda guerra mondiale pubblicò due nuove raccolte di poesie ispirate all'atmosfera tenebrosa di quegli anni ed esplicando ancora una volta il suo grande impegno umanistico, sociale e patriottico: La dodicesima ora ( Dvanajsta ura , 1939) e Il cuore del poeta ( Pesnikovo srce , ultimato nel 1941).

      Convinto pacifista, nemico di violenze, di false demagogie, difensore del retaggio culturale sloveno, fu considerato un poeta antiitaliano e controllato da vicino dalle forze di polizia; durante la guerra venne internato in diversi campi di concentramento , tra cui il terribile lager dell'isola di Arbe.

      Di questa reclusione parlò nel diario poetico In esilio, in poesie caratterizzate da assenza totale di odio o di ribellione; egli vi esprime piuttosto un senso di solidarietà umana per tutti, compagni di sofferenza oppure nemici , carcerieri (Cella numero cinque, Soldato straniero…).

      Nella sua opera, quindi, Gruden testimonia il dramma dell'uomo sloveno ed europeo del XX secolo, proponendo una soluzione di superamento della sofferenza nel coraggio e nell'amore per gli altri uomini.

      Morì a Lubiana nel 1948.

 

 

BARCOLA L'ALBA SUL MARE NELLE CAVE DI AURISINA
BARKOVLJE JUTRO NA MORJU V NABREŽINSKI KAMNOLOMIH
Analisi Analisi Analisi

 

 

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BARCOLA

 

Come uccelli in fuga dalla bora

cercando riparo - così le bianche case sul costone,

sui pastini, dove il vento marino profuma,

sono calate tra le viti e gli ulivi.

 

Davanti a quelle case le Barcolane hanno steso

le bianche camicie: un po' più in alto nel sole

sopra la pergola sui davanzali rosseggia ancora il garofano -

per chi una mano l'ha coltivato?

 

L'uomo si consuma tutto il giorno negli altoforni di Servola.

Nel porto triestino il ragazzo scarica sacchi,

la ragazza vende i fiori a Ponterosso:

 

da Barcola, dove la mia lingua non si spegne,

dove le zolle non generano traditori,

il nostro sangue e la nostra terra penetrano a Trieste.

 

 

 

 

 


 

 

BARKOVLJE

 

Kot bi pred burjo se v zavetje skrile

na begu ptice - v bregu bele hiše

na paštne, kjer od morja veter diše

med trte so in oljke se spustile.

 

Pred njimi Barkovljanke razgrnile

so bele srajce... v soncu malo više

nad latniki po oknih nagelj rdi še -

za koga roke so ga tja vsadile?

 

Moz v plavzih škedenjskih ves dan se trudi,

v trzaški luki zaklje fant prenaša,

deklé na Rdecem mostu roze nudi:

 

iz Bárkovelj, kjer moj jezik ne ugaša,

ker izdajic dojile niso grudi,

zajeda v Trst se kri in zemlja naša.

 

 

 

 


 

 

    

 

 

ANALISI di BARCOLA - BARKOVLJE

 

 

      La poesia presenta la struttura classica del sonetto - due quartine e due terzine di endecasillabi - , con uno schema di rime incrociate (ABBA, ABBA, CDC, DCD) nel testo originale, che non viene del tutto mantenuto nella traduzione italiana.

      Le prime tre strofe appaiono quasi tre quadri; l'ultima costituisce piuttosto una riflessione.

      La prima quartina si apre con una similitudine: le bianche case sul costone sono paragonate ad uccelli in fuga dalla Bora, nascoste nei pastini tra viti e ulivi. E' un' immagine dinamica e vivace, positiva ( il vento marino profuma ): le case sembrano animate, danno un senso di vitalità.   La ripresa del colore bianco (delle case e rispettivamente delle camicie) costituisce un collegamento tra la prima e la seconda quartina.

      Nella seconda strofa Gruden focalizza l'attenzione sulle case di Barcola e l' obbiettivo si sposta dalle case alle donne ( le Barcolane ) . Prevale sempre un senso di luminosità ( le bianche camicie,... in alto nel sole).    Il poeta fissa il suo sguardo sui balconi delle case dove rosseggia… il garofano: con l'uso sottolineato del colore dei garofani il poeta forse evoca la sua visione politica di questo piccolo mondo.

La strofa si conclude con una domanda: per chi è stato piantato e curato il fiore rosso?

      Questo interrogativo, che sottintende un affetto, un legame, ci porta alla strofa seguente: nella prima terzina, infatti, non vengono più proposti paesaggi ma tre figure: un uomo (forse il marito di una barcolana) che lavora ( si consuma ) nel calore della ferriera ( gli altoforni di Servola), un ragazzo (forse il figlio), che fa il portuale (scarica sacchi), e una ragazza (forse la sorella) che vende fiori al mercato cittadino.

Si può forse individuare un climax discendente nella rappresentazione della durezza del mondo del lavoro. Certo con questa strofa il poeta vuole ricordare l'apporto lavorativo dato alla città di Trieste dalla minoranza slovena.

      Questo si chiarisce esplicitamente nell'ultima terzina dove il poeta sottolinea le sue radici: da Barcola, dove la popolazione slovena è radicata, dove i suoi consanguinei lavorano nei campi, nasce il contributo sloveno all'economia triestina. Sembra quasi una contrapposizione tra le campagne barcolane, vive, colorate, gioiose, e l'immagine della città, caratterizzata dalla fatica e dal lavoro. L'urbanizzazione, insomma, appare un rischio: di perdita dell'identità nazionale, di perdita di un felice rapporto con la natura.

 

      E' il tema finale, duro e cupo (zolle, sangue, terra), rinforzato da connotazioni negative, anche se negate (non…si spegne, non…traditori), che domina questa poesia, pur così ricca di immagini, di colore e di movimento, e così classica nelle sue forme.

 

 

 


 

L'ALBA SUL MARE

 

Di notte i Chioggiotti han tirato le reti,

or stesi in barca avvolti nelle vele

dormono a fondo esausti dalla pesca,

nessun rumore disturba il loro sonno.

 

Nel silenzio da fiaba dorme l'Istria,

sul Carso impallidiscono le stelle;

si destan già i primi galli lontano

nella solitudine del mattino.

 

Giù da Sistiana soffia un vento fresco,

sfuma sull'acqua il riflesso stellare;

la prima luce alita già tra i tetti,

 

spezza la nebbia con le mani azzurre -

e alzandosi dalla laguna muto

l'orizzonte, desto un gabbiano grida.

                                                                       Trad. G.Depangher

 

 

 

 

 


 

JUTRO NA MORJU           

 

Vso noč tartane vlekli so Čožoti,

zaviti v jadra v barki zdaj ležijo,

izmučeni od lova trdno spijo,

nobeden glas jim v spanju snà ne moti.

 

Kot v bajki Istra v medli spi tihoti,

nad Krasom zvezde bolj in bolj bledijo;

že prvi petelini se budijo

nekje tam daleč v jutranji samoti.

 

Dol od Sesljana tereh ostro piha,

odsev zvezdà ugaša nad vodami;

že prva zarja čez slemena diha,

 

razniha meglo s sinjimi rokami -

in ko z lagun se dvigne dalja tiha,

hreščé galeb se od nekod predrami.

 

 

 

 

 


 

 

ANALISI  di  L'ALBA SUL MARE  -

JUTRO NA MORJU

 

 

      Il sonetto in lingua slovena presenta rime dallo schema ABBA, ABBA, CDC, DCD, che nella versione tradotta non vengono mantenute. Si tratta di un quadro che rappresenta l'arrivo dell' alba sul mare nel golfo di Trieste e il risveglio dei pescatori che si erano assopiti, stanchi, dopo la pesca notturna.

      Le prime due quartine sono caratterizzate da un ritmo molto lento e danno un senso di silenzio, pace e tranquillità (i pescatori stanno stesi, dormono a fondo esausti, l'Istria dorme nella solitudine del mattino).

      Il senso di staticità è rinforzato dalla mancanza di suoni ( nessun rumor disturba il loro sonno, nel silenzio da fiaba ) e dalla nebbia (ultima terzina).

      Ma nella seconda parte della poesia avviene il risveglio della terra, del mare e della vita, con un ' accelerazione del ritmo ( si destan già i primi galli, la prima luce alita..., spezza la nebbia ); nascono nuovi suoni ( i galli, desto un gabbiano grida ) e nuovi colori (attraverso la metafora delle mani azzurre della prima luce).

      Anche in questo sonetto emerge il gusto di Gruden per le forme classiche, per la rappresentazione di quadri descrittivi ma su temi sociali: anche qui, come in Barcola, i protagonisti sono i pescatori di Chioggia venuti a pescare nel golfo di Trieste.

 

 

 

 


 

 

NELLE CAVE DI AURISINA

 

Ascolta - canti calabri e friulani

dalla pietra echeggian, suonan vibrando.

l'orecchio ho teso - oh, vorrei gridare

da Aurisina fin giungere a Sistiana.

 

Magri e bruciati più delle cicale

i corpi che vacillano nel sole:

mani che arretrano e s'alzano ovunque,

rassegnati sguardi, guance rugose.

 

Il berretto bianco di carta in capo,

ma sotto son tristi e cupi i pensieri,

semisvestito, dalla cava cerca

 

di dare all'affamata prole il pane;

solo il sabato, dentro all'osteria

i crucci oscuri annegano nel vino.

                                                                         Trad. G.Depangher

 

 

 

 

 


 

 

 

V NABREŽINSKIH KAMNOLOMIH      

 

Čuj - pesem Kalabréža in Furlana

zveni iz kamna, poje trepetaje...

prisluhnil sem - o, kriknil bi najraje

od Nabre'ine daleč do Sesljana.

 

Bolj od Škržakov suha in ožgana

telesa so, kar v soncu se jih maje:

sto rok se krči, dviga na vse kraje,

oči so mrke, lica razorana.

 

Na glavi belo kapo iz papirja,

pod njo pa misli žalostne in mračne,

razpet in golorok ves teden terja

 

iz kamna kruha za otroke lačne;

v soboto le, ko stopi do oštirja,

mu v vinu utonejo skrbi oblačne.

 

 

 

 

 


 

 

ANALISI di NELLE CAVE DI AURISINA - V NABREŽINSKIH KAMNOLOMIH  

 

      Ancora un sonetto dal tema sociale, ambientato nel cuore produttivo del territorio, le cave di Aurisina, dove sloveni, calabri e friulani lavorano fianco a fianco, subendo la medesima sorte di sfruttati.

      Lo sguardo del poeta si sofferma sulla durezza del lavoro dei cavatori, magri e bruciati ... i corpi che vacillano. Le connotazioni negative riguardano sia il loro fisico che i loro pensieri: gli sguardi sono rassegnati, le guance rugose, i pensieri tristi e cupi; i crucci oscuri non trovano altra consolazione, nei momenti di riposo, che nell'alcool.

      Il poeta, rappresentando questa scena, compie un atto di denuncia di uno sfruttamento in cui gli sloveni del territorio sono accomunati agli immigrati italiani.

 

 

 

 


 

 

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